28 novembre 2010

Prima domenica d'Avvento

Nelle letture di oggi, prima domenica di Avvento, spiccano due verbi: “vegliate” e “state pronti”. Vegliare e stare pronti perché, come ci dice il Vangelo, non sappiamo né il giorno né l’ora in cui il Signore verrà. Ma ci sarebbe da aggiungere che non sappiamo neanche “come”, in che modo, verrà.

Proprio poco tempo fa con mia moglie si parlava del nostro matrimonio, di come ci fossimo preparati, di quali aspettative e quali sogni avessimo quel giorno, e di come poi le cose fossero andate: certamente in modo diverso ma soprattutto inaspettato. Ma d’altra parte anche Maria e Giuseppe erano senz’altro pronti alla nascita di Gesù, ma certamente il modo, le circostanze sono state diverse da come le avevano immaginate, sperate.

Attendere non significa sapere tutto in anticipo. Vegliare non vuol dire neutralizzare la sorpresa.

Quando si ha a che fare con Dio bisogna sempre essere aperti alla sorpresa. Oserei dire che se Dio non ci sorprende, allora non è dio ma soltanto una nostra idea, un idolo che ci siamo costruiti.

Perché Dio è spesso misterioso (i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie - Is 55,8) e quindi mai totalmente immaginabile, a volte anche bizzarro, mai totalmente spiegabile o comprensibile.
Dobbiamo essere aperti alla sorpresa per non fare come i farisei, che erano convinti di sapere tutto di Dio, ma che non lo seppero riconoscere quando venne in mezzo a loro. E anzi, arrivarono a condannare a morte Dio convinti di fare la volontà di Dio.

Ma soprattutto dobbiamo essere aperti alla sorpresa per poterlo riconoscere quando ci viene a trovare ogni giorno nella nostra vita, quando cammina nelle nostre strade, quando si fa presente sotto l’aspetto più inaspettato e impensabile.

07 novembre 2010

Un cammino di liberazione: Il Decalogo (1)

Marco 12, 28-34
Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è:Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi”. Lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Qual è il primo”, domanda lo scriba, quasi a voler fare una classifica, quasi a voler dire “questo lo seguo, gli altri se posso....”. Ma Gesù non accetta di fare una graduatoria, non fa una citazione letterale del decalogo. Lui va al cuore dei comandamenti, al loro Spirito, al loro senso profondo. Il decalogo non rappresenta niente altro che diversi modi di coniugare il verbo ‘amare’. Le due tavole dei comandamenti (quella riguardante Dio e quella riguardante gli esseri umani) non sono altro che le due facce di un’unica medaglia. Non c’è l’una senza l’altra. Negarne una significa negare anche l’altra.

Giovanni, il discepolo prediletto, dice che “Dio è amore” (1Gv 4,8). Ritengo che questo sia il centro del cristianesimo, della rivelazione del vero volto del Padre fatta da Gesù.

Poco prima della sua Passione Gesù ci ha lasciato un comandamento nuovo: “Amatevi come io vi ho amato”. Questo comandamento non cancella gli altri. Troppe volte Cristo ha espressamente detto che non è venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento. Quindi questo ‘comandamento nuovo’ è il compimento del Decalogo. È la lampada che ci deve illuminare nella lettura e nella comprensione dei 10 Comandamenti.

E una delle condizioni per amare è la libertà, difatti ‘amare’ è un verbo che non ha l’imperativo, non si può obbligare ad amare.

I comandamenti vanno letti all’interno dell’alleanza che Dio, di sua iniziativa, ha stretto col popolo d’Israele. Sono inseparabili da questo rapporto particolare e unico. E, all’interno di questo rapporto, non sono l’elenco di ciò che un dio lontano pretende dai suoi sudditi, ma sono un dono che Dio fa ai suoi amici; dono fatto insieme alla capacità di seguirli e viverli.

Come sempre, per capire il senso di un discorso bisogna fare attenzione a come questo inizia, all’incipit. Il decalogo inizia così: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù” (Es 20,2; Dt 5,6). Dio si presenta sottolineando innanzi tutto ciò che Lui ha fatto per il suo popolo. E le parole che seguono non sono ciò che il popolo deve fare, il prezzo da pagare per il dono della libertà, ma sono sempre il dono della libertà che deve continuare, che non deve esaurirsi in un solo atto e in un solo momento. Il dono (la liberazione) va mantenuto, custodito, fatto fruttificare e aumentare (ricordate la parabola dei Talenti?)
Il Dio liberatore non può trasformarsi di colpo in un carabiniere o in un Dio esoso. Non può diventare un faraone che sottopone ai lavori forzati di un’osservanza legale. Molte volte Dio dice che lui è geloso, ma è geloso innanzi tutto della libertà del suo popolo, l’ha liberato e vuole che rimanga libero. In fondo neanche a Dio, come a noi, piace lavorare invano, né gli piace che il suo lavoro vada vanificato o distrutto.
Una cosa notano tutti: i comandamenti sono una serie di proibizioni, espresse col ‘non’. Ci sono otto “non” e solo due sono ordini: l’amore ai genitori e il rispetto del sabato (anche se questo, dopo l’enunciazione positiva, continua con “non farai alcun lavoro”). Un rabbino commentava questo fatto così: “Le Parole (così gli ebrei chiamano i comandamenti) si riassumono in una sola proibizione: ‘Non tornare indietro, nella terra della schiavitù’”. Dio libera degli schiavi, ma non per condurli ad un’altra schiavitù. Per questo motivo il decalogo fa parte a pieno titolo della liberazione, ne è un aspetto. Vivendo le dieci parole io dimostro di essere definitivamente uscito dall’Egitto, e di non aver nessuna voglia di ritornarci. I comandamenti rappresentano la possibilità di una vita nuova, nella libertà che Dio ci offre.


E noi come sentiamo l’obbedienza ai comandamenti? Come un peso o come una possibilità immensa? Come una legge o come una ‘buona notizia’? Li subiamo, magari cercando di svicolare tra i cavilli e i distinguo, oppure rendiamo grazie a Dio per averceli donati?
Li sentiamo come una catena o come una liberazione? Chiudono la nostra vita tra mura o ci aprono spazi inesplorati? Sono una serie di obblighi e divieti, o una via aperta che ognuno di noi può percorrere per essere sé stesso nella libertà e nell’amore?

Per concludere una frase di D. Bonhoeffer: “È una grazia conoscere i comandamenti di Dio. Essi ci liberano dai nostri piani personali e dai nostri conflitti, rendono sicuri i nostri passi e gioioso il nostro cammino.